L’articolo che stai leggendo appartiene alla rubrica GG, dedicata al videogioco come risorsa educativa: è una serie di tappe che offrono spunti pratici e prospettive nuove per capire come il game design possa diventare un alleato nella didattica.
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Nel secondo articolo di GG abbiamo parlato di cos’è il gioco e di come l’essere umano possa utilizzarlo anche per apprendere nuove informazioni, ora è il momento di scoprire come il gioco possa sviluppare una vasta gamma di soft skills e migliorare la percezione dei rapporti sociali.
Il gioco: una palestra di pensiero critico
Il bello del gioco è che, anche quando sembra solo divertimento, in realtà ci mette davanti a un continuo esercizio di pensiero critico: ogni enigma da risolvere, ogni scelta da compiere, ogni ostacolo da superare diventa un piccolo allenamento mentale.
Osserviamo, analizziamo, valutiamo i possibili risultati ed agiamo di conseguenza. Ad esempio, io la vivo così: ogni mio turno di una partita a carte o gioco da tavolo crea un acceso dibattito nella mia psiche fatto di “se”, “ma” e “e poi dopo?” protraendo la durata della partita ben oltre l’umanamente accettabile. Capita anche a voi?
I videogiochi, in particolare, funzionano come una vera e propria palestra di logica: ci insegnano che il metodo più efficace per imparare non è evitare l’errore, ma capirlo ed affrontarlo.
Questa dinamica ha un nome: “trial & error”. Significa provare, sbagliare, riprovare. E ciò non è altro che una simulazione accelerata di ciò che viviamo nella vita reale.
In questo modo, il gioco ci abitua a pensare in modo strategico, a non temere l’errore e a trasformare ogni fallimento in un tentativo più consapevole rispetto al precedente.
F5 – Salvataggio rapido: sbagliando si impara
Un aspetto molto interessante del trial & error nel mondo videoludico è la possibilità di salvare la partita e ricaricare alla bisogna.
Nei videogiochi possiamo sperimentare scelte azzardate, affrontare sfide impossibili o imboccare strade sbagliate sapendo che, in caso di disastro, basterà un “carica salvataggio” per tornare indietro e riprovare.
È come avere una macchina del tempo personale che ci permette di testare strategie senza paura di conseguenze irreversibili.
Nella vita reale, ovviamente, non esiste la possibilità di ricaricare la partita ma questa meccanica ci insegna comunque qualcosa di prezioso: sbagliare non è la fine del gioco, ma parte integrante del processo di apprendimento, possiamo dire che “sbagliare diventa il gioco” in un processo meta-ludico che si conclude quando abbiamo imparato dai nostri errori.
I videogiochi, in questo senso, creano uno spazio sicuro dove il fallimento diventa un passaggio necessario per la crescita e non un muro contro cui fermarsi.
Puzzle, enigmi e… Indiana Jones
Chi come me ha qualche annetto sulle spalle si ricorderà benissimo la scena iniziale de “I Predatori dell’Arca Perduta”: il nostro Indiana, dopo aver superato un bel po’ di trabocchetti all’interno di un antico tempio in Perù, si ferma ad osservare il fantomatico idolo d’oro cercando di capire quanta sabbia avrebbe dovuto lasciare nel sacchetto per non far scattare l’ultima e più clamorosa trappola (il masso gigante che rotola è pura poesia).
Possiamo pensare al comportamento del Dr. Jones come il normale processo di apprendimento strategico: quando la difficoltà sale e le regole si complicano, siamo costretti a passare dalla semplice intuizione al vero e proprio pensiero critico.
Nei giochi di strategia, ad esempio, non basta fare la prima mossa che ci viene in mente: bisogna analizzare lo scenario, prevedere le mosse degli avversari e immaginare possibili conseguenze a breve e lungo termine.
Lo stesso accade negli RPG (Role-playing games, tradotto “Giochi di Ruolo”), dove una decisione presa in un dialogo può cambiare radicalmente la trama o il destino dei personaggi.
In queste situazioni, il gioco ci spinge a valutare, comparare, scegliere: non più mosse impulsive, ma riflessioni ponderate.
È un modo di pensare che allena la mente a ragionare in modo più profondo, critico e strategico.
A ciascuno il suo ruolo
“Ogni Ofelée fa el so mestée” dicevano i miei nonni (dal dialetto comasco “Ogni pasticciere – ogni artigiano, in senso esteso – faccia il suo mestiere”).
Questa frase racchiude un significato ben più profondo che una semplice ammonizione bonaria nei confronti di quelle persone che tentano di fare ciò che non gli compete: ognuno ha un ruolo da giocare.
Ed è proprio nel gioco, soprattutto in quello di squadra, che questa massima prende vita.
Un’enorme fetta del mercato videoludico di oggi è proprio quella dei giochi multiplayer: sono giochi in cui più persone possono giocare contemporaneamente, utilizzando lo stesso dispositivo o diversi dispositivi collegati in rete.
La modalità multiplayer permette ai giocatori di interagire tra loro, cooperando o competendo all’interno dello stesso ambiente virtuale, rendendo l’esperienza di gioco più sociale e dinamica rispetto al gioco in singolo.
Nei titoli multiplayer o cooperativi non si vince se tutti fanno la stessa cosa: c’è chi attacca, chi difende, chi cura, chi pianifica.
Pensiamo a un gruppo di utenti di un MMORPG (Massively Multiplayer Online Role-Playing Game, ovvero “gioco di ruolo multigiocatore in rete di massa”) che deve coordinarsi per abbattere un boss, o a una partita ad Among Us (famosissimo multigiocatore di sopravvivenza), dove il successo dipende dalla capacità di comunicare e convincere gli altri.
In questi contesti si impara a riconoscere il valore della diversità di competenze, a negoziare, a fidarsi ed a collaborare.
È palese quanto queste stesse dinamiche tornino utili anche nella vita reale: a scuola, in ufficio, persino nell’organizzare una vacanza con gli amici.
Il gioco, in fondo, è una palestra perfetta per allenarsi a stare in squadra.
Nei panni dell’altro: sviluppare empatia
“Walking in My Shoes” dei Depeche Mode è un appello all’empatia, che chiede agli altri di comprendere le difficoltà, gli errori e le esperienze dolorose di chi parla prima di esprimere un giudizio.
La canzone usa il classico modo di dire anglosassone ” Walk a mile in someone else’s shoes” (letteralmente “camminare un miglio con le scarpe di qualcun altro” tradotto “mettersi nei panni di qualcun altro”) per trasmettere l’idea che la vera comprensione richieda immedesimazione ed apertura mentale.
Nel mondo videoludico “Mettersi nei panni degli altri” non è solo un modo di dire: diventa un’esperienza concreta.
Nei titoli narrativi o di ruolo non interpretiamo semplicemente un personaggio, diventiamo quel personaggio: viviamo le sue emozioni, prendiamo decisioni al suo posto e affrontiamo le conseguenze delle sue scelte.
È qui che il gioco si trasforma in una vera e propria macchina dell’empatia: ci fa provare sulla nostra pelle cosa significa essere un eroe tormentato, un sopravvissuto in un mondo ostile, o persino un personaggio che cerca solo di trovare il proprio posto nel mondo.
I videogiochi più interessanti da questo punto di vista, a mio avviso, sono quelli che offrono uno spaccato della profondità dell’animo umano e non solamente una esemplificazione del concetto di “Bene” e “Male”: ad esempio, il famosissimo The Last of Us, narra di una società al collasso per colpa di un’epidemia e delle storie dei sopravvissuti che devono prendere decisioni drastiche, ben al di fuori del dualismo “bene – male”.
In questi casi non esiste il “bianco o nero”, è tutta una grande sfumatura di grigio in cui i personaggi agiscono al suo interno perseguendo i propri scopi.
Un altro esempio è il GDR d’azione The Witcher (basato sull’omonima serie di romanzi dello scrittore polacco Andrzej Sapkowski) che ci mette nei panni di un cacciatore di mostri in un mondo dark-fantasy ispirato al basso medioevo dell’Est Europa: un mondo in cui esiste solamente la legge del più forte, dove guerre, carestie, segregazione e pogrom nel confronto di razze non-umane sono all’ordine del giorno.
Le riflessoni di Geralt (il protagonista del gioco) portano a chiedersi se i veri mostri non siano gli esseri umani invece che le creature che lui dovrebbe eliminare per contratto.
Il videogioco è un medium potentissimo: con i nostri alter-ego possiamo vivere migliaia di storie diverse, prendere decisioni buone o cattive, schierarci da una o l’altra parte, tentare di salvare il mondo oppure decidere di condannarlo.
Quale è la via giusta da seguire?
Non esiste una risposta univoca o corretta però questa immersione ci allena a guardare la realtà con occhi diversi, a comprendere punti di vista lontani dal nostro e ad avvicinarci alle emozioni altrui.
In un’epoca in cui la comunicazione è sempre più veloce ma spesso superficiale, i videogiochi e i giochi di ruolo ci ricordano che empatia significa fermarsi, ascoltare e, almeno per un po’, camminare nelle scarpe di qualcun’altro.
La cassetta degli attrezzi del giocatore
Ogni giocatore, senza accorgersene, costruisce nel tempo la propria “cassetta degli attrezzi” fatta di competenze trasversali.
Non si tratta di armi leggendarie o pozioni magiche, ma di soft skills: quelle abilità invisibili che fanno la differenza nella vita reale.
Ogni volta che risolviamo un enigma o affrontiamo una boss fight, ci alleniamo al problem solving; quando dobbiamo gestire poche risorse in un gestionale o pianificare mosse a lungo termine in uno strategico, stiamo esercitando pensiero strategico e gestione del tempo.
Nei sandbox come Minecraft o The Sims, invece, la creatività diventa lo strumento principe: inventare, costruire e sperimentare.
Come abbiamo visto prima, nei giochi competitivi, servono capacità di leadership e comunicazione, perché vincere non dipende solo dal talento individuale ma dalla sinergia con gli altri.
E non dimentichiamo le sconfitte: ogni “Game Over” è una palestra di resilienza, quella capacità di rialzarsi e riprovare con una strategia migliore.
Tutto questo costituisce un bagaglio prezioso: competenze non misurabili con voti o punteggi, ma sempre più richieste anche nel mondo del lavoro e nelle relazioni quotidiane.
Equilibrio e varietà: la dieta del videogiocatore saggio
Come in cucina, anche nel gioco serve equilibrio. Nessuno metterebbe mai il doppio del sale in una ricetta (o la metà) senza rischiare di rovinarla.
Allo stesso modo, giocare troppo o troppo poco altera l’esperienza, facendoci perdere i suoi veri benefici.
L’uso consapevole del gioco significa scegliere quando, quanto e come giocare, trasformando il divertimento in un’occasione di crescita. Non si tratta di demonizzare i videogiochi (errore che per anni ha creato più confusione che soluzioni) ma di imparare a vederli come strumenti da usare con intelligenza e saggezza.
Proprio come con una dieta equilibrata, il segreto sta nella varietà e nella misura: un po’ di avventura per stimolare la creatività, un po’ di cooperazione per allenare il lavoro di squadra, e magari anche un puzzle per affinare la concentrazione.
Così il gioco smette di essere semplice passatempo e diventa una palestra quotidiana, capace di allenare la mente, il cuore e le relazioni.
Perché, alla fine, non è il tempo che dedichiamo a giocare a fare la differenza, ma la qualità dell’esperienza che costruiamo.
La skill più importante: saper crescere giocando
Siamo arrivati alla conclusione di questo approfondimento in cui abbiamo visto come il gioco non sia soltanto evasione, ma una vera palestra per allenare quelle soft skills che oggi contano più che mai: pensiero critico, problem solving, creatività, empatia, resilienza, capacità di comunicare e collaborare.
Ogni livello, ogni sfida, ogni partita lascia un segno e arricchisce la nostra “cassetta degli attrezzi” personale. Il gioco ci insegna a prendere decisioni più consapevoli, a comprendere meglio gli altri, a non fermarci di fronte agli errori ma a trasformarli in occasioni di crescita.
In fondo, questo è il messaggio che ci portiamo a casa: giocare non significa soltanto vincere o perdere, ma imparare a diventare versioni migliori di noi stessi, dentro e fuori dallo schermo.
Hai mai pensato a quante skill hai sbloccato nella vita reale?