Microtransazioni, lootboxes e ludopatia: il Lato Oscuro dei videogiochi

Il lato oscuro dei videogiochi tra avatar virtuali e carte di credito: cosa sapere per un uso più consapevole e sicuro.

Microtransazioni, lootboxes e ludopatia: il Lato Oscuro dei videogiochi
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L’articolo che stai leggendo appartiene alla rubrica GG, dedicata al videogioco come risorsa educativa: è una serie di tappe che offrono spunti pratici e prospettive nuove per capire come il game design possa diventare un alleato nella didattica.

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Nei precedenti articoli di gg abbiamo esplorato il mondo videoludico ponendo l’accento sul valore educativo e pedagogico dei videogiochi.
Con questo articolo faremo luce sul Lato Oscuro del mondo videoludico per poterne capire l’origine e come fare a difendere i nostri figli o studenti (o amici) dal possibile uso distorto di certe meccaniche sempre più presenti online.

 

Una breve premessa sul mercato dei videogiochi

Negli ultimi trent’anni il videogioco è passato dall’essere un semplice passatempo per pochi appassionati a un fenomeno culturale e industriale di portata mondiale.
Dai report elaborati nel 2024 il mercato videoludico muove circa 200 miliardi di dollari con una solida previsione di crescita negli anni futuri.
Ad oggi sviluppare un videogioco AAA (classificazione informale per riferirsi a videogiochi sviluppati da grandi aziende e con budget enormi) costa alle software house centinaia di milioni di dollari.
Avete letto bene, centinaia di milioni.
Non è raro trovarsi di fronte a produzioni che impiegano quasi mezzo miliardo di dollari per lo sviluppo ed il marketing di titoli che poi vendono decine di milioni di copie.

I team di sviluppo impiegano anni per creare motori grafici sempre più realistici, ambientazioni dettagliate e intelligenze artificiali in grado di reagire in modo credibile alle azioni del giocatore. Una fetta consistente del budget è riservata anche al personale altamente specializzato: programmatori, designer, sceneggiatori, doppiatori e musicisti che lavorano a stretto contatto per costruire esperienze interattive che non hanno nulla da invidiare alle grandi produzioni cinematografiche.
In alcuni casi, vengono coinvolti attori famosi e registi per garantire una qualità narrativa e visiva di livello hollywoodiano.

Un’altra porzione significativa dei fondi viene impiegata nel marketing e nella distribuzione, spesso con cifre che eguagliano o addirittura superano quelle spese per lo sviluppo tecnico. Campagne pubblicitarie globali, partnership con brand di moda o tecnologia, influencer, eventi di lancio e collaborazioni con piattaforme di streaming sono solo alcune delle strategie usate per creare attesa e desiderio attorno a un titolo.

Questa macchina promozionale, necessaria per recuperare gli enormi costi di produzione, contribuisce però ad alimentare un mercato dove la pressione commerciale è fortissima, spingendo le aziende a introdurre sistemi di monetizzazione aggiuntiva per massimizzare i profitti anche dopo il lancio.

Proprio per questo, dietro l’apparente innocenza di mondi colorati e avatar virtuali, si nascondono meccanismi economici e psicologici sempre più sofisticati. Il confine tra intrattenimento e sfruttamento dell’utente è diventato sottile: le microtransazioni e i sistemi di ricompense casuali trasformano spesso l’esperienza ludica in un ambiente dove il divertimento si intreccia con dinamiche di consumo compulsivo.

Questo articolo intende esplorare i principali rischi legati a questi modelli: dalla spinta a spendere denaro reale all’interno dei giochi, alla somiglianza con il gioco d’azzardo, fino al problema crescente della dipendenza videoludica.
Comprendere questi fenomeni è essenziale non solo per i giocatori, ma anche per genitori, educatori e istituzioni che devono affrontare una realtà in rapido mutamento.

 

Microtransazioni: la strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni

Le microtransazioni rappresentano oggi una delle principali fonti di guadagno per l’industria videoludica.
Si tratta di piccoli acquisti (da pochi centesimi a qualche euro) effettuabili all’interno del gioco che permettono di comprare oggetti come costumi, armi, potenziamenti o valute virtuali che permettono di personalizzare l’esperienza del giocatore o di progredire più rapidamente.
Questo modello, nato inizialmente nei giochi mobile free-to-play (giochi gratuiti che basano il loro sostentamento solamente sugli acquisti in-game), si è ormai esteso anche ai titoli di fascia alta, trasformando radicalmente il modo in cui i videogiochi vengono progettati e fruiti.

A prima vista, le microtransazioni sembrano un’opzione facoltativa e innocua: pochi euro spesi per migliorare il proprio personaggio o ottenere un vantaggio temporaneo. In realtà, la loro efficacia economica si basa su meccanismi psicologici molto precisi, come la ricerca di gratificazione immediata (vi ricordate del Circolo delle ricompense descritto nell’articolo precedente?) o il desiderio di distinguersi dagli altri giocatori.
Inoltre, molti titoli introducono sistemi di progressione volutamente lenti o sbilanciati, spingendo l’utente a spendere denaro per risparmiare tempo o mantenere la competitività online, il cosiddetto modello “pay-to-win” (letteralmente “pagare per vincere”).

Le microtransazioni si basano su un sistema di pagamento estremamente semplificato, progettato per ridurre la percezione della spesa reale.
Nella maggior parte dei casi, il giocatore non effettua acquisti diretti in euro o dollari, ma converte il proprio denaro in una valuta virtuale interna al gioco come i V-Bucks di Fortnite o le Primogems di Genshin Impact.

Questo passaggio intermedio crea un effetto psicologico di distacco tra l’azione di spendere e la consapevolezza del valore economico effettivo, rendendo più facile acquistare oggetti o “pacchetti” senza percepire subito il costo complessivo.
Spesso, inoltre, le somme acquistabili non corrispondono mai esattamente al prezzo di un singolo oggetto, spingendo i giocatori ad acquistare quantità maggiori di valuta digitale per “non sprecare” il credito residuo.

Un altro aspetto rilevante è la facilità e immediatezza delle transazioni. Le piattaforme di gioco memorizzano le informazioni di pagamento, consentendo di completare l’acquisto con un solo clic o tocco sullo schermo (basti pensare ad un qualsiasi e-commerce per rendersene conto).
Nei giochi per smartphone, le microtransazioni sono spesso integrate negli store digitali (come Google Play o App Store), dove l’acquisto è immediato e richiede solo l’impronta digitale o il riconoscimento facciale.
Questo sistema elimina quasi del tutto la riflessione consapevole prima dell’acquisto e, nei casi dei giocatori più giovani, può portare a spese inconsapevoli se i controlli parentali non sono attivati.
In altre parole, la componente di valutazione economica viene completamente rimossa, e il confine tra gioco e consumo si dissolve nel flusso dell’esperienza ludica.

Esempi emblematici di questa strategia si trovano in giochi come FIFA (oggi EA Sports FC), dove le modalità online spingono i giocatori a investire denaro reale per acquistare pacchetti di carte e formare squadre più forti, o nel già citato Fortnite, dove l’acquisto di “skin” (modelli cosmetici da applicare al proprio personaggio) è diventato un simbolo di status all’interno della community. Anche titoli come Genshin Impact o Call of Duty: Warzone sfruttano un’economia interna basata su valute digitali che rendono la spesa quasi impercettibile: pochi euro alla volta, ma ripetuti nel tempo.

Dal punto di vista dell’industria, le microtransazioni garantiscono profitti costanti e prolungati, trasformando un acquisto una tantum in un flusso di entrate continuo. Per questo, molte software house costruiscono i propri giochi attorno a un’economia interna attentamente calibrata, spesso più simile a un marketplace che a un’esperienza ludica tradizionale.

Tuttavia, proprio questa invisibile fusione tra divertimento virtuale e spesa reale solleva interrogativi etici: fino a che punto il gioco rimane tale, e quando invece diventa una piattaforma di consumo mascherata?

 

Cosa sono le loot boxes: scrigno del tesoro o vaso di Pandora?

Avete presente il Mito di Pandora?
Zeus, per vendetta contro Prometeo, decide di donare al neonato genere umano la prima donna, Pandora appunto.
Costei è in possesso di un vaso donatogli da Zeus in persona, con la raccomandazione di non aprirlo mai.
Ma si sa che, come in ogni mito che si rispetti, le cose non vanno mai per il verso giusto: Pandora apre il vaso e libera tutti i mali del mondo.

Questo esempio ci porta verso l’approfondimento di uno dei metodi più utilizzati all’interno del mondo delle microtransazioni: le loot boxes, letteralmente “casse premio”.

Si tratta di contenitori virtuali che, una volta acquistati o ottenuti durante il gioco, offrono una ricompensa casuale: un’arma rara, una skin esclusiva, un personaggio potente o un semplice oggetto di poco valore.
L’elemento chiave è proprio la casualità: il giocatore non sa mai cosa troverà all’interno e viene spinto a tentare la fortuna ancora e ancora, in un meccanismo che ricorda molto da vicino le dinamiche del gioco d’azzardo tradizionale.

Il funzionamento delle loot boxes si basa sul principio del rinforzo intermittente1, lo stesso utilizzato nelle slot machine. Ogni apertura può portare a una grande ricompensa o a un fallimento, e l’imprevedibilità del risultato genera un forte rilascio di dopamina nel cervello (e rieccoci con il Circolo delle ricompense), alimentando la voglia di riprovare.
È un sistema che gioca con l’emozione dell’attesa e con la speranza di “vincere” qualcosa di raro o prestigioso. A rendere il tutto più insidioso è la presenza di effetti visivi e sonori studiati appositamente per amplificare l’euforia del momento, rendendo l’esperienza più simile a quella di un casinò che a un semplice videogioco.

Oltre all’aspetto psicologico, le loot boxes rappresentano un potente strumento economico per le aziende, che costruiscono attorno ad esse intere strutture di gioco pensate per incentivare l’acquisto ripetuto.
Molti titoli, infatti, offrono la possibilità di ottenere loot boxes anche gratuitamente, ma con tempi di attesa lunghi o ricompense minori, spingendo i giocatori più impazienti a investire denaro reale per accedere subito ai premi migliori.
Questo meccanismo di “progressione accelerata” crea una distinzione implicita tra chi spende e chi no, trasformando il gioco in una sorta di competizione economica oltre che ludica. Inoltre, la presenza di eventi a tempo limitato, contenuti esclusivi e percentuali di ottenere oggetti rari volutamente basse alimenta la paura di perdere un’occasione unica (fear of missing out, o FOMO), una leva psicologica che aumenta ulteriormente la propensione alla spesa.

Questa trasformazione ha cambiato profondamente anche la percezione del valore nel videogioco. In passato, la soddisfazione del giocatore derivava dal superare una sfida, migliorare le proprie abilità o raggiungere un obiettivo attraverso il merito e la perseveranza. Oggi, invece, la possibilità di acquistare ricompense casuali con denaro reale sposta l’attenzione dal “guadagnare” al “comprare”. Il risultato è una progressiva mercificazione della ricompensa, in cui l’emozione della conquista viene sostituita dalla logica della spesa. Questo non solo impoverisce il senso originario del gioco come esperienza di crescita e gratificazione personale, ma rischia anche di normalizzare comportamenti economici impulsivi, soprattutto tra i più giovani, abituandoli sin da piccoli all’idea che la fortuna e il denaro siano scorciatoie legittime per il successo.

Il concetto di rinforzo intermittente nasce dalla psicologia comportamentale e descrive una forma di apprendimento in cui una ricompensa viene concessa solo in modo casuale e non prevedibile. Questo schema, studiato negli esperimenti di B.F. Skinner, genera una risposta molto resistente all’estinzione: quando il cervello associa l’azione (come aprire una loot box) alla possibilità di ottenere una ricompensa, anche se rara, tende a ripeterla più spesso.
Il rilascio di dopamina durante l’attesa e la scoperta del premio rafforza il comportamento, creando una spirale di eccitazione e ripetizione che, nei casi più estremi, può sfociare in forme di dipendenza comportamentale.

Esempi celebri di loot boxes si trovano in titoli come Fortnite, Overwatch 2, Apex Legends, Genshin Impact, e FIFA Ultimate Team mode, dove le ricompense casuali possono avere anche un valore economico reale, grazie alla possibilità di rivendere oggetti rari sul mercato digitale.
Il caso di Star Wars: Battlefront II del 2017 ha segnato un punto di svolta: dopo le polemiche legate alla presenza di loot boxes che influenzavano le prestazioni di gioco, la casa produttrice è stata costretta a rimuoverle temporaneamente a seguito delle proteste dei giocatori e dell’intervento delle autorità.

Sul piano legale, l’Europa si sta muovendo in modo frammentato: Belgio e Paesi Bassi hanno vietato completamente le loot boxes considerate a pagamento e basate sulla fortuna, assimilando queste pratiche al gioco d’azzardo.
Regno Unito, Francia e Germania hanno invece optato per linee guida più morbide, imponendo maggiore trasparenza sulle probabilità di ottenere oggetti rari e l’obbligo di indicare la presenza di meccaniche casuali nelle classificazioni PEGI (Pan European Game Information, metodo di classificazione per i videogiochi a seconda del contenuto).
A livello comunitario, il Parlamento Europeo ha avviato discussioni per definire una normativa uniforme che tuteli i minori e garantisca pratiche commerciali più etiche. Nonostante ciò, molte aziende continuano a operare in una zona grigia, adattando i propri sistemi di monetizzazione a seconda delle leggi locali.

Tuttavia, la questione resta complessa: le aziende difendono il sistema definendolo una “meccanica di sorpresa”, mentre le associazioni dei consumatori e gli esperti di salute mentale sottolineano il rischio di sviluppare comportamenti compulsivi, soprattutto tra i minori.

Pandora

Quando la passione diventa dipendenza: la ludopatia

Il videogioco nasce come forma di intrattenimento, ma in alcuni casi può trasformarsi in un comportamento compulsivo, fino ad assumere i tratti di una vera e propria dipendenza comportamentale.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità, nel 2019, ha riconosciuto ufficialmente il “Gaming Disorder” o “disturbo da gioco digitale” come patologia, definendolo una condizione caratterizzata da perdita di controllo, priorità crescente assegnata al gioco rispetto ad altre attività e continuazione del comportamento nonostante conseguenze negative.
In altre parole, il videogioco smette di essere un passatempo e diventa il centro della vita quotidiana, sostituendo progressivamente relazioni sociali, studio o lavoro.

Sistemi di ricompensa giornaliera, missioni a tempo limitato e progressi “a piccoli passi” stimolano il cervello a tornare costantemente, creando un ciclo di gratificazione immediata e attesa che è difficile interrompere.
Alcuni dei titoli online più popolari sfruttano perfettamente questa logica, premiando la costanza e penalizzando le pause, fino a indurre un senso di obbligo psicologico a restare connessi.

Spesso si sviluppa anche una distorsione della percezione del tempo: ore trascorse a giocare sembrano minuti, mentre le attività quotidiane diventano ostacoli che interrompono l’esperienza digitale.
Questo stato di assorbimento totale può inizialmente dare un senso di soddisfazione e controllo, ma nel lungo periodo si trasforma in isolamento sociale e stress emotivo.

Le conseguenze, soprattutto nei soggetti più giovani, possono essere gravi: calo del rendimento scolastico, inversione dei ritmi sonno-veglia, isolamento, fino a veri e propri episodi di crisi d’astinenza in assenza di accesso al gioco.
Tuttavia, è importante distinguere tra uso intensivo e dipendenza patologica: giocare molte ore non significa necessariamente essere dipendenti, se il comportamento resta sotto controllo e non interferisce con la vita reale.
Il problema nasce quando il videogioco diventa l’unica fonte di gratificazione o un rifugio emotivo per colmare insicurezze, stress o disagio personale.

Conoscere, comprendere e comunicare: i tre pilastri dell’educazione ludica

Prevenire la dipendenza videoludica non significa proibire il gioco, ma guidare i ragazzi verso un rapporto equilibrato e consapevole con il digitale.

Il primo passo è favorire un dialogo aperto: parlare dei videogiochi senza giudizi permette ai giovani di sentirsi compresi e di condividere spontaneamente le proprie esperienze, incluse eventuali difficoltà nel gestire il tempo di gioco.
A livello pratico, è utile stabilire insieme regole chiare e realistiche, come fasce orarie di utilizzo, pause regolari e priorità da rispettare (studio, sport, sonno).
È fondamentale coinvolgere i ragazzi nella definizione di queste regole: aumenta il senso di responsabilità e riduce la percezione di imposizione.

Un altro aspetto spesso sottovalutato è la necessità di comprendere il contesto sociale del videogioco.
Per molti giovani, infatti, giocare non significa solo interagire con un software, ma partecipare a una comunità, mantenere amicizie e costruire un’identità condivisa.
Ignorare questa dimensione rischia di creare incomprensioni e conflitti: vietare un gioco può essere percepito come un’esclusione dal gruppo di pari.

È quindi fondamentale che adulti ed educatori riconoscano il valore sociale del gioco online e imparino a distinguere tra un uso sano, basato sulla socializzazione e sulla cooperazione e comportamenti problematici, come l’isolamento o l’uso compulsivo.
Comprendere il perché un gioco sia così importante per un ragazzo permette interventi più efficaci, meno punitivi e più rispettosi delle sue esigenze emotive.

Infine, comunicare significa anche dare l’esempio.
Se gli adulti che circondano un giovane mostrano equilibrio nell’uso della tecnologia, nell’alternare attività online e offline e nel rispettare i momenti di disconnessione, trasmettono un modello credibile e coerente.
Al contrario, un adulto costantemente assorbito dallo smartphone difficilmente potrà convincere un ragazzo della necessità di limitare il tempo di gioco: creare rituali familiari senza schermi aiuta a normalizzare il distacco dal digitale e a rafforzare le relazioni.
L’obiettivo non è demonizzare i videogiochi, ma insegnare che possono convivere armoniosamente con altre attività e diventare una parte equilibrata della vita, non il suo fulcro esclusivo.

Nel prossimo articolo approfondiremo il tema dei controlli parentali e di come implementarli per poter mitigare i rischi relativi al cattivo utilizzo dei videogiochi.

Buon gioco consapevole a tutti!

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Filippo Pedretti

Sviluppatore, musicista, divoratore seriale di libri e creativo.
In Education Marketing Italia mi occupo di codici, geroglifici e tutte quelle cose magiche di cui sono fatti i siti web.

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