Ogni anno scolastico, puntuale, si ripresenta il dibattito sull’abbigliamento degli alunni. Quest’anno, forse, con un eco maggiore rispetto al solito, se consideriamo che diverse scuole italiane hanno emanato circolari o depliant indirizzati a studenti, famiglie e talvolta anche al personale, in cui si dettagliano e si formalizzano i capi d’abbigliamento ritenuti inappropriati per l’ambiente scolastico.
In virtù dell’autonomia scolastica secondo il D.P.R. n. 275/1999, ogni istituto è libero di gestire il codice di abbigliamento e gli eventuali provvedimenti a cui ricorrere. In generale, le circolari delle scuole italiane, riportano il divieto di indossare gonne troppo corte, pantaloni sopra al ginocchio, addome scoperto, scollature, cappelli, scarpe con zeppe e tacchi eccessivamente alti, ma anche unghie troppo lunghe, trucco appariscente, barbe incolte e accessori vistosi.
È necessario un dress code a scuola?
Il Ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara, pur non avendo imposto norme nazionali uniformi, ha più volte ribadito l’importanza del rispetto delle regole e della “valorizzazione del merito anche attraverso comportamenti adeguati”.
Secondo la visione del Ministro, la scuola deve formare “non solo studenti preparati, ma cittadini consapevoli e responsabili”, e questo passa anche da come ci si presenta in classe.
Come cita la scrittrice Dacia Maraini, “ogni luogo pretende un suo linguaggio. Rispettarlo non significa mancanza di libertà, al contrario vuol dire riconoscere la specificità dell’occasione”. Ed è questo che i sostenitori di un codice dell’abbigliamento a scuola, cercano di insegnare ai più giovani.
Oltre al rispetto dell’ambiente nel quale ci si trova, vietare determinati indumenti potrebbe essere un aiuto verso la promozione dell’uguaglianza tra gli studenti. In questo modo si potrebbe, infatti, limitare le disparità economiche e la riduzione del bullismo circa l’aspetto esteriore. Inoltre, educare ad un outfit diversificato rispetto al contesto, rappresenta una forma di educazione alla cura di sé e alla presentabilità della propria persona.
Mario Rusconi, Presidente dell’Associazione Presidi ANP di Roma, aggiunge che si tratta di “vestire decenti più che di dress code. La scuola è un luogo sacro, che deve avere una sua liturgia, che va rispettata. Nessuno andrebbe a un funerale o ad un matrimonio in modo inadeguato. Allo stesso modo non si capisce perché a scuola si dovrebbe venire vestiti da bagnini o miss spiaggia”. A queste parole fanno eco quelle di Roberto Mugnai, Dirigenti Scuola, “abbiamo il compito di creare una consapevolezza di contesto: non vale solo per le aule ma per ogni circostanza della vita, da un colloquio di lavoro a una cena al ristorante”.
L’abito non fa l’alunno: analisi sociologica della moda
La risposta della maggior parte degli alunni è decisamente contraria ad un dress code. La motivazione principale è che delle regole circa l’abbigliamento vengono percepite come una limitazione della libertà individuale e di espressione. Il Codacons si esprime affermando che tali regole finiscono per “limitare pesantemente la libertà degli studenti”.
Alcune proteste, nate sui social, denunciano un controllo che colpisce soprattutto le ragazze, con richiami sul “decoro” che vengono percepiti come sessisti o anacronistici. Il nodo centrale resta quello di bilanciare la libertà personale con il rispetto del contesto educativo.
Da un lato, la scuola ha il dovere di garantire ordine, rispetto e parità di trattamento, dall’altro, deve evitare di trasformarsi in un luogo di imposizioni estetiche o di moralismo.
Il sociologo Georg Simmel, nel suo saggio La moda (1904), offre una chiave di lettura sociologica perfetta per comprendere anche il dibattito contemporaneo sul dress code scolastico. La dinamica sociale che si nasconde dietro il modo di vestire, che esprime la tensione tra individualità e conformismo, viene spiegata con chiarezza. Per Simmel, la moda è un fenomeno sociale ambivalente: nasce dal desiderio dell’individuo di distinguersi dagli altri, ma al tempo stesso di appartenere a un gruppo. Chi segue la moda, si adegua ai codici di un determinato contesto, ma lo fa proprio per differenziarsi da chi non ne fa parte.
La moda, dunque, non è solo un fatto estetico: è un linguaggio sociale che esprime appartenenza.
Nel contesto scolastico, il modo di vestire può avere la stessa funzione: indossare determinati abiti, scarpe o accessori è per molti giovani un modo di comunicare chi si è e a quale gruppo si appartiene. Secondo le polemiche dei giovani, il divieto di vestirsi in un certo modo non colpisce solo l’estetica, ma anche la possibilità di comunicare se stessi attraverso il linguaggio del corpo e dell’abito. Il saggio di Simmel mostra che la moda vive sempre in bilico tra conformismo e originalità, lo stesso vale per la scuola. Da un lato, è uno spazio collettivo che richiede regole comuni, dall’altro, è un luogo di formazione della personalità, dove i giovani imparano a esprimere la propria identità.
Per questo, un dress code troppo rigido rischia di accentuare il primo aspetto a scapito del secondo.
La pedagogia del contratto individua il giusto compromesso
Tra l’imporre un dress code scolastico che potrebbe mortificare la libertà individuale degli studenti e un’eccessiva libertà nel vestiario, che potrebbe dar vita a dei look improbabili tra i banchi, il giusto compromesso potrebbe essere offerto dalla pedagogia del contratto.
Negli ’70, lo studioso Philipe Meirieu, proponeva questa innovativa metodologia nell’ambito degli studi francesi sul miglioramento dell’ambiente di lavoro. Si tratta di un vero e proprio contratto sottoscritto dalle parti (in questo caso scuola e studenti), fondato su responsabilità reciproca, partecipazione attiva e rispetto condiviso delle regole. La pedagogia del contratto si basa sull’idea che l’apprendimento sia più efficace quando l’alunno partecipa consapevolmente al proprio percorso formativo. Il contratto stabilisce obiettivi, regole, ruoli e impegni reciproci, conducendo gli alunni ad un percorso di crescita dell’autonomia e della responsabilizzazione. In questo caso, la dirigenza e una rappresentanza studentesca, potrebbero confrontarsi per trovare un punto d’incontro, che non limiti eccessivamente la voglia di outfit liberi da parte degli studenti ma che mantenga, al contempo, un abbigliamento considerato decoroso per l’ambiente scolastico, (leggi anche Il dibattito come strumento didattico).
Forse la soluzione non sta nell’eliminare del tutto la moda o nel vietare certe espressioni, ma nel riconoscere il valore educativo del vestirsi consapevolmente: capire che ogni scelta estetica è anche una scelta sociale. In questo senso, il dress code non dovrebbe essere percepito come un’imposizione, ma un’occasione per riflettere su ciò che i nostri abiti dicono di noi, relativamente ai singoli contesti.