L’articolo che stai leggendo appartiene alla rubrica GG, dedicata al videogioco come risorsa educativa: è una serie di tappe che offrono spunti pratici e prospettive nuove per capire come il game design possa diventare un alleato nella didattica.
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Negli ultimi anni, il mondo dell’istruzione ha iniziato a guardare con crescente interesse al potenziale dei videogiochi come strumenti per l’apprendimento. Lontani dall’essere solo una forma di intrattenimento, i videogiochi si stanno affermando come ambienti complessi in cui gli studenti possono esplorare, sperimentare, collaborare e costruire conoscenze in modo attivo.
La generazione digitale di oggi apprende infatti in contesti sempre più interattivi e immersivi, dove la motivazione e il coinvolgimento giocano un ruolo centrale nel processo educativo.
Parallelamente, la ricerca pedagogica ha messo in luce come il gioco, digitale o tradizionale, possa favorire lo sviluppo di competenze trasversali note come soft skills (lo abbiamo visto nel precedente articolo).
In questo scenario l’uso dei videogiochi a scuola non rappresenta una semplice innovazione tecnologica ma un vero e proprio cambiamento culturale: l’idea che si possa “imparare giocando” acquista una nuova legittimità, supportata da esperienze concrete e da una crescente produzione scientifica.
In questo articolo vedremo alcuni casi pratici in cui i videogiochi possano essere usati in ambito scolastico come supporti all’insegnamento e come potenziamento dello stesso.
Giocare facendo altro: la Gamification
Prima di approfondire il tema vero e proprio dell’articolo vorrei soffermarmi un attimo sul concetto di gamification e le sue implicazioni.
Se ci pensiamo bene la gamification è ben presente nelle nostre vite da decenni, basti pensare ai benefici che possiamo acquisire avendo una tessera fedeltà di un determinato supermercato o di una libreria.
Più usiamo quel servizio più benefici otteniamo: che siano prodotti esclusivi per abbonati oppure scontistiche in percentuali sull’acquisto di beni e servizi.
Abraham Maslow, con la sua piramide dei bisogni, vede la soddisfazione e la motivazione umana come un percorso gerarchico che culmina nell’autorealizzazione.
Il passaggio a livelli superiori di bisogni genera un senso di progresso e soddisfazione, simile al concetto di “level up” nei giochi, dove l’aumento di livello rappresenta un avanzamento verso la piena espressione del proprio potenziale umano.
Il segreto della gamification sta tutto qui: il senso di progressione e di completamento di alcune azioni attiva quello che in neuroscienza viene chiamato “circuito delle ricompense”.
Il circuito delle ricompense è un insieme di strutture cerebrali che si attiva in risposta a stimoli gratificanti, portando al rilascio di neurotrasmettitori come la dopamina.
Questo sistema motiva il comportamento ripetendo le esperienze piacevoli e associando certi comportamenti a sensazioni di piacere, soddisfazione e motivazione, contribuendo così all’apprendimento.
È facile notare come la “gamification” di alcune esperienze non sia altro che l’attività ludica riportata ad azioni che di ludico hanno ben poco (come fare la spesa) ma che utilizzando la leva del circuito delle ricompense ci tengono legati a doppio filo ad alcune attività.
Giusto o sbagliato che sia, questo approccio funziona. E funziona decisamente bene.
Game-based learning VS Gamification: due facce della stessa medaglia
Nel campo della didattica digitale, si distinguono due approcci principali: il game-based learning e la gamification.
Il primo fa riferimento all’uso di videogiochi sviluppati proprio per raggiungere obiettivi educativi specifici, integrandoli nel curricolo o in attività scolastiche.
La gamification, come abbiamo appena visto, consiste nell’applicare dinamiche tipiche del gioco a contesti non ludici, allo scopo di aumentare la motivazione e l’engagement degli utenti.
Nell’ambito dell’approccio Game-based learning dobbiamo fare un distinguo tra videogiochi educativi e videogiochi mainstream: i videogiochi educativi nascono con un obiettivo didattico dichiarato e mirano a insegnare contenuti o abilità specifiche (come la matematica, le lingue o la programmazione).
I secondi, invece, sono prodotti di intrattenimento che, pur non essendo progettati per la scuola, possono essere reinterpretati in chiave educativa grazie alla loro ricchezza narrativa, alle dinamiche di problem solving o alla simulazione di ambienti realistici.
Da un punto di vista pedagogico, l’efficacia dei videogiochi (e dei giochi in generale) come strumenti di apprendimento si fonda su approcci come il costruttivismo e l’apprendimento esperienziale.
In questi modelli, lo studente non è una semplice “spugna” che assorbe nozioni e conoscenze, ma un protagonista che costruisce significato attraverso l’azione, la sperimentazione e la riflessione sulle proprie scelte.
In questo senso, il gioco diventa un laboratorio virtuale in cui teoria e pratica si incontrano, rendendo l’apprendimento più profondo e duraturo.
Mattoncini, storie da inventare e quiz: i videogiochi educativi
Permettetemi un breve inciso storico: quando si parla di videogiochi educativi non si può non citare “The Oregon Trail” il capostipite di questa branca videoludica.
The Oregon Trail è un videogioco educativo testuale sviluppato nel 1971 da tre studenti senior del Carleton College (Minnesota, USA) per insegnare agli studenti la storia delle migrazioni verso il West americano nel XIX secolo.
Ambientato nel 1848, il giocatore guida un gruppo di coloni lungo la pista dell’Oregon (The Oregon Trail per l’appunto), affrontando sfide come malattie, guasti al carro e condizioni ambientali difficili, basate su diari reali dei pionieri.
Il gioco fu tra i primi a introdurre l’interattività e la simulazione storica nella didattica, diventando uno strumento educativo ampiamente utilizzato nelle scuole elementari statunitensi, per più di un decennio.
The Oregon Trail è oggi considerato un classico del game-based learning ed è stato inserito nella World Video Game Hall of Fame, simbolo del potere educativo dei videogiochi fin dai loro albori.
Dal 1971 ne è stata fatta di strada: abbiamo accesso a tecnologie impensabili allora (basti pensare ai nostri smartphone) ed è molto più semplice ed immediato interagire con i videogiochi.
Grazie a questa evoluzione abbiamo accesso a software sempre più finemente calibrati per il mondo dell’educazione.
Tra gli esempi più noti troviamo Minecraft: Education Edition, una versione didattica del celeberrimo gioco sandbox, adattata per l’uso scolastico e utilizzata in tutto il mondo.
Offre mappe e mondi precostruiti realizzati per lezioni di storia, geografia, scienze, chimica, matematica e altro. Gli insegnanti possono utilizzare questi strumenti per creare esperienze di apprendimento immersive e coinvolgenti.
Inoltre, permette agli studenti di creare i propri mondi e progetti per dimostrare la comprensione di un argomento, approfondendo la conoscenza mentre lo spiegano o lo costruiscono, in più, supporta il gioco in multiplayer, consentendo agli studenti di collaborare e lavorare insieme su progetti all’interno dello stesso mondo.
Un’altra interessante funzionalità è il Code Builder, che permette di imparare i fondamenti della programmazione tramite blocchi visivi, JavaScript o Python.
Duolingo, la famosa app per imparare le lingue, integra elementi ludici in percorsi di apprendimento personalizzati, sfruttando la logica dei livelli e delle ricompense per mantenere alta la motivazione degli studenti.
Esiste una versione gratuita per le scuole “Duolingo for Schools” in cui i docenti possono aggiungere gli studenti condividendo il codice della classe o un link (è anche possibile importare direttamente gli studenti da Google Classroom), assegnare compiti e monitorare i progressi.
Classcraft trasforma l’intera classe in un’avventura di ruolo cooperativa, incentivando la partecipazione e la collaborazione.
Gli studenti creano il proprio avatar (guerriero, mago o guaritore) e devono completare compiti e missioni assegnate dal docente, che possono includere quiz, lavori di gruppo e altre sfide che fanno guadagnare punti esperienza ed avanzare di livello.
La piattaforma offre anche strumenti per il coinvolgimento dei genitori, la gestione della classe e la possibilità di integrare contenuti esistenti come quelli di Google Classroom.
Il metodo di engagement dei videogiochi educativi è molto funzionale, da un lato stimolano la motivazione intrinseca: gli studenti imparano perché desiderano progredire nel gioco.
Dall’altro favoriscono un apprendimento attivo e sperimentale, in cui concetti astratti si trasformano in esperienze concrete.

Il videogioco, la nuova frontiera della narrazione
Accanto ai giochi progettati con finalità educative, sempre più insegnanti e ricercatori stanno sperimentando l’uso didattico di videogiochi mainstream, cioè titoli nati per l’intrattenimento ma ricchi di potenzialità formative. Questi giochi, grazie alla loro qualità narrativa, alla complessità dei mondi simulati e alla possibilità di agire in modo creativo, si prestano a essere reinterpretati come ambienti di apprendimento esperienziale.
Un caso significativo è Assassin’s Creed, in cui la modalità Discovery Tour introdotta da Ubisoft in titoli come Origins e Odyssey, consente di esplorare ricostruzioni fedeli dell’antico Egitto o della Grecia classica senza elementi di combattimento, trasformando il videogioco in un museo interattivo.
Diverse scuole l’hanno adottato per lezioni di storia e arte, permettendo agli studenti di “camminare” tra le piramidi o i templi di Atene e scoprire curiosità culturali attraverso un’esperienza immersiva.
Sul fronte scientifico e tecnico, Kerbal Space Program è un gioco di simulazione che sfida i giocatori a costruire e lanciare razzi nello spazio, rispettando le leggi della fisica e della meccanica orbitale. È stato utilizzato in contesti di didattica STEM per far comprendere in modo intuitivo concetti complessi come la forza di gravità, l’attrazione gravitazionale ed altri fenomeni fisici.
Un’altra grande branca del mondo videoludico è quella dei titoli gestionali, giochi che mettono l’utente di fronte a problemi di natura puramente economico/gestionale.
Satisfactory, ad esempio, è un videogioco di simulazione, in cui l’obiettivo principale è costruire ed espandere fabbriche su un pianeta alieno.
La gestione delle risorse richiede il bilanciamento tra la produzione e il consumo energetico per evitare blackout, monitorando attentamente la produzione e il consumo di energia.
La formula gestionale può essere ibridata con elementi storici e narrativi, in questo caso non possiamo che parlare del pezzo da novanta per eccellenza: Age of Empires 2: The Age of Kings.
Uscito originariamente nel 1999 è uno dei titoli più longevi e influenti del genere strategico in tempo reale (RTS), il gioco permette agli utenti di guidare civiltà del passato attraverso epoche storiche, gestendo risorse, economia, eserciti e sviluppo tecnologico.
Parallelamente, il gioco integra una forte dimensione storica: le campagne narrative raccontano eventi reali attraverso la prospettiva di personaggi storici come William Wallace, Federico Barbarossa, Gengis Khan, Saladino e Giovanna d’Arco.
Ogni missione è accompagnata da introduzioni e commenti narrativi che contestualizzano le battaglie, offrendo un’occasione di apprendimento immersivo della storia.
Ci sono poi giochi che sfruttano temi delicati per porre l’accento su riflessioni di carattere etico.
- Papers, Please simula il lavoro di un ispettore di frontiera in uno stato totalitario, un modo “leggero” per introdurre argomenti quali il rispetto dei diritti umani e la coesistenza pacifica dei popoli.
- This War of Mine (basato sulla storia reale dell’assedio di Sarajevo) offre la prospettiva dei civili in un contesto di guerra, utile per trattare temi di empatia, scelta morale e impatto sociale dei conflitti armati.
- Celeste è un gioco platform che affronta il tema dell’ansia e dell’autoefficacia, durante l’avventura Madeline (la protagonista) impara a convivere con la sua ansia ed a accettare le imperfezioni che tutti, nessuno escluso, si portano dentro.
Questi esempi offrono uno spaccato molto profondo di quanto i videogiochi siano arrivati ad un livello di granularità e qualità narrativa sempre più alto.
Per ovvi motivi di spazio e tempo non possiamo citarli tutti, questi sono solamente piccoli esempi dell’enorme offerta che il mercato videoludico offre al suo pubblico.
Al di là dello specchio
“Immagino che in questo momento ti sentirai un po’ come Alice che ruzzola dentro la tana del Bianconiglio, mh?” chiedeva Morpheus ad un confuso Neo nel primo capitolo di The Matrix.
Il mondo videoludico è talmente stratificato e sfaccettato che potrebbe sembrare troppo complesso da poterlo assimilare se uno non vi ha mai fatto parte come giocatore.
L’integrazione dei videogiochi nella didattica non è un processo spontaneo né automatico: richiede una regia educativa consapevole, in cui il docente assume il ruolo di mediatore, facilitatore e progettista dell’esperienza di apprendimento.
Da questo punto di vista il videogioco, infatti, non “insegna da solo”: diventa significativo solo se inserito all’interno di un percorso didattico coerente, con obiettivi chiari e attività di riflessione che accompagnano il momento ludico.
Il ruolo dell’insegnante è duplice: da un lato, deve selezionare e contestualizzare il gioco, valutandone la pertinenza rispetto al contenuto disciplinare, all’età degli studenti e al livello di difficoltà.
Dall’altro, deve guidare l’esperienza di gioco, trasformandola in occasione di apprendimento condiviso.
Questo può avvenire attraverso attività preparatorie (discussione dei temi, analisi storica o scientifica del contesto del gioco), momenti di gioco strutturato in classe o a casa, e riflessioni successive, in cui gli studenti elaborano quanto vissuto, confrontano strategie e traggono conclusioni.
L’ambiente scolastico, a sua volta, svolge un ruolo determinante. Per valorizzare il potenziale dei videogiochi serve una cultura educativa aperta all’innovazione, capace di riconoscere il valore formativo dei linguaggi digitali senza pregiudizi. Ciò implica anche un aggiornamento delle competenze digitali dei docenti, la disponibilità di spazi adeguati e, soprattutto, la possibilità di sperimentare metodologie attive senza il timore di “perdere tempo” rispetto ai programmi tradizionali.
Il videogioco, inserito in un contesto collaborativo, può inoltre favorire nuove dinamiche relazionali in classe. Gli studenti diventano protagonisti e co-costruttori di conoscenza, mentre il docente assume un ruolo di guida e osservatore, stimolando il confronto e il problem solving.
Tutto facile a parole, vero?
Come per ogni nuova attività o processo da implementare non possiamo partire in quarta e pretendere che tutto funzioni liscio come l’olio sin da subito.
Proprio per questo numerose università e studiosi stanno portando avanti dei progetti di sperimentazione per valutare con dati e statistiche la reale efficacia di metodi educativi basati sui videogiochi.

Tre indizi fanno una prova: gli studi e le ricerche
Ricerche condotte da studiosi come James Paul Gee e Kurt Squire hanno evidenziato che i videogiochi, grazie alla loro struttura basata su obiettivi progressivi, feedback immediati e sfide calibrate, promuovono forme di apprendimento situato e pensiero sistemico.
Gee, in particolare, ha sottolineato come i “buoni giochi” siano costruiti su principi simili a quelli del buon insegnamento: coinvolgono, pongono problemi significativi, incoraggiano la riflessione e permettono all’errore di diventare parte del processo di apprendimento.
Un articolo del 2022 di un gruppo di accademici cinesi ha studiato come i videogiochi portino ad un miglioramento dell’apprendimento relativo alle materie scolastiche: il risultato principale è stato un effetto positivo complessivo sull’achievement in ambito STEM, l’entità dell’effetto varia in base a fattori come durata dell’intervento, tipo di controllo e modalità di integrazione didattica.
Sul fronte italiano, diversi progetti scolastici e universitari hanno sperimentato l’uso dei videogiochi in chiave educativa.
L’iniziativa Mineclass, nata nel 2018 e promossa da Indire (Istituto Nazionale di Documentazione, Innovazione e Ricerca Educativa) in collaborazione con Microsoft Italia, ha portato Minecraft: Education Edition nelle scuole con corsi di formazione per i docenti e studenti.
Le stesse università di Milano Bicocca, UNIBO e molte altre stanno integrando strumenti di serious game nei loro programmi di studio.
Un piccolo passo per l’uomo, un grande passo per l’umanità
In questo articolo abbiamo visto come il processo di avvicinamento al mondo videoludico possa essere affrontato in svariati modi e come la società si stia interrogando sul loro potenziale educativo.
Siamo ben consci di come l’evoluzione dei metodi di insegnamento sia un processo che continui ininterrotto da decenni con continue svolte e rivoluzioni.
La vera rivoluzione non è nel videogioco in sé: è nello sguardo educativo.
Un buon insegnante può trasformare una missione in un testo narrativo, una battaglia storica in un dibattito, un puzzle in un problema di fisica. Quando il gioco diventa parte di un percorso consapevole, la scuola smette di essere un luogo dove si “subisce” l’apprendimento e torna a essere uno spazio dove si esplora, si sperimenta, si sbaglia e si cresce.
Certo, non tutto è semplice. Servono tempo, formazione e la voglia di uscire dai binari tradizionali. Ma l’educazione del futuro non potrà ignorare i linguaggi con cui le nuove generazioni pensano, comunicano e imparano. E il videogioco è uno di questi linguaggi: un codice culturale potente, capace di unire emozione, competenza e collaborazione.
In fondo, il messaggio è semplice ma rivoluzionario: giocare è una cosa seria. Non perché sostituisca lo studio, ma perché ne risveglia il senso più autentico: la curiosità, la scoperta, la voglia di capire come funziona il mondo. E se la scuola riuscirà a fare spazio anche al gioco, forse non formerà solo studenti più competenti, ma anche persone più creative, critiche e felici di imparare.
Pronti a giocare?