Intervista a Mario Santamaria, tra comunicazione ed Università

La sfida di oggi, ma soprattutto di domani, è tutta sulla comunicazione della scienza come cambio di passo necessario a fronte dei nuovi orizzonti digitali

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Da qualche giorno si è concluso il Forum AICUN 2019 (di cui vi parleremo nei prossimi giorni) ed è un piacere scambiare due chiacchiere con chi si occupa di Comunicazione ed Università nel suo quotidiano, con un ruolo di grande responsabilità: oggi parliamo con Mario Santamaria, Head of Communications and Media Relations della CRUI – Conferenza dei Rettori delle Università italiane.

Education Marketing Italia (EMI): Che percorso ti ha portato a ricoprire il ruolo chiave nella comunicazione della Conferenza dei Rettori Italiani?

Mario Santamaria (MS): Il classico percorso interno a un’organizzazione. Ho iniziato occupandomi dei contenuti di un sito di progetto part time. In seguito ho affiancato come addetto stampa il mio responsabile, approfondendo i vari aspetti del mestiere. Poi, come succede spesso, sono intervenuti dei cambiamenti e, un passo alla volta, sono arrivato dove sono ora. Sono passati ormai più di 15 anni da quel primo giorno.

EMI: Dall’alto della tua esperienza decennale nella comunicazione universitaria, come hai visto evolversi l’approccio verso la comunicazione dagli inizi del millennio ad oggi?

MS: Più che “dall’alto” direi “dal basso”. E ti assicuro che non è finta modestia. In realtà più passa il tempo, più la direzione è verso il basso. Dalla teoria che sulla carta funziona sempre, alla pratica che ti costringe a verificare ogni giorno, a imparare a leggere situazioni sempre diverse.

Contando che nel mezzo di questi 15 anni c’è stato il cambio di passo impresso alla comunicazione digitale dall’avvento dei social media, direi che la vita comunicativa delle università è cambiata radicalmente. E questo soprattutto in funzione di uno degli stakeholder principali degli atenei. Gli studenti. E fra questi soprattutto i più giovani, che hanno abbracciato la svolta in un batter d’occhio.

Metti accanto a questo la naturale lentezza che accompagna da sempre i processi dell’accademia e capisci da solo la grande fatica che i comunicatori universitari hanno dovuto fare per agevolare il salto. In questo non penso di eccedere se dico che si sono comportati e continuano a comportarsi come veri e propri “mediatori musicali”. Mediano in continuazione e con resistenze su entrambi i fronti fra il sound degli interlocutori interni e i molteplici sound dei pubblici esterni (studenti, famiglie, aziende del territorio, istituzioni, dimensione internazionale, sistema dei media, eccetera).

Immagina un musicista esperto del jazz interno, che si trova in tempo reale a dover tradurre un fraseggio, dal registro classico all’heavy metal. Ho usato la metafora musicale di proposito. La musica ha molte più variabili di una semplice lingua parlata (generalmente il riferimento preferito in questo caso).

EMI: Secondo te perché in Italia si fa così fatica a parlare di università e del suo ruolo rispetto alla cultura, all’impresa, all’internazionalizzazione?

MS: Qui si apre una questione che è quasi impossibile esaurire in una risposta. Alle condizioni oggettive si intreccerebbero opinioni personali, difficilmente dimostrabili una volta per tutte. Ma ci provo lo stesso.

In Italia, almeno nell’ultimo decennio, si è assistito a un progressivo chiamarsi fuori dello Stato, della politica e del sistema dei media dal tema ‘università’. Nell’ultimo caso addirittura a una poco comprensibile campagna di svalutazione.

Provo a spiegarmi con qualche numero. Negli ultimi 10 anni l’investimento statale nell’università è calato di circa un miliardo. Il numero di ricercatori di circa 10.000 unità. E questo a prescindere dal colore dei governi (tranne piccole e purtroppo ininfluenti eccezioni). E questo in un paese che, anche ripristinando quelle cifre, sarebbe comunque indietro (in quanto a impegno) rispetto non solo alle economie avanzate, ma ormai anche a diversi paesi emergenti.

Penso vada da sé che, quando la linea di condotta generale è questa, non c’è da meravigliarsi se due ragazzi su dieci vengono convinti dalla narrazione che sostiene (contraddicendo tutti i dati disponibili) l’inutilità dell’università. E di conseguenza che i vari “tessuti” del Paese facciano fatica a creare sinergie con il sistema accademico (anche se pure su questo le situazioni locali rivelano spesso sorprese inaspettate).

C’è poi il perché. Perché si è arrivati a questa situazione? Vorrei evitare banalità quali ‘il sapere fa paura’, ‘cittadini con un’istruzione di basso profilo sono più facili da governare’ e via dicendo. Quindi provo a esprimerti la mia opinione personale.

La ragione (non l’unica ma secondo me la più significativa) viene da lontano. Da un periodo in cui si pensava che l’economia italiana (con questo restringendo la funzione dell’università alla sola preparazione delle “risorse umane”, cosa che credo impropria ma che è utile a capire) non avesse bisogno dell’innovazione. Che l’innovazione costasse troppo e che quindi dovessero essere altri Paesi più ricchi a occuparsene. A noi sarebbe bastato saperla usare, potendo garantire una manodopera, anche intellettuale, a costi competitivi. Una visione miope che si è protratta nel tempo nonostante i fatti (la globalizzazione ad esempio) imponessero un ripensamento. La politica, che nonostante i vistosi maquillage, si innova a un ritmo ancora più lento dell’accademia non ha ancora fatto suo (oggi, 2019) un concetto fondamentale: l’economia della conoscenza si fa solo se sulla conoscenza scommetti e investi. Se non scommetti e investi sei fuori. Punto.

EMI: Qual è la sfida più grande che l’università italiana deve e dovrà affrontare in futuro nell’ambito della comunicazione e del marketing?

MS: Ti dico come la penso. Ma conta che faccio ancora parte di una ristretta minoranza.

La sfida di oggi, ma soprattutto di domani è tutta, e sottolineo tutta, sulla comunicazione della scienza. Non come si è fatta (nella maggior parte dei casi) fino ad oggi, ma su un cambio di passo necessario a fronte del discorso che facevamo prima sui nuovi orizzonti digitali disintermediati.

Scriviamo e consumiamo storie almeno dal Paleolitico. E’ il nostro terzo bisogno fondamentale sostengono alcuni studiosi (dopo cibo e procreazione). E’ una caratteristica comune di tutte le culture del pianeta Terra. Antropologi, narratologi, storyteller hanno sviscerato il funzionamento delle storie. Le storie (a differenza delle descrizioni) fanno appello a entrambi cardini della natura umana: quello emotivo e quello razionale.

A causa dell’utopia cartesiana (banalizzo, visto che più che a Cartesio la si deve al suo fan club postumo) si è pensato di poter educare i cittadini al “rigore asettico dei numeri”. Che in sostanza bastasse mostrare cifre e tabelle, descrivere appunto, perché il messaggio fosse chiaro, lampante, indiscutibile (e la fonte a quel punto accreditata e autorevole).

Ma l’homo sapiens non funziona così. E in quattro secoli di utopia cartesiana abbiamo finito per ottenere il risultato opposto. Insoddisfatti dalla delega totale alla sapienza dei numeri (e ai loro detentori) i cittadini si rivolgono a narrazioni alternative. Per questo, a differenza di molti, non mi meraviglio di fronte a nuove forme di mitologia millenaristica quali il cospirazionismo politico, il terrapiattismo, le litanie no-vax, le para-religioni della dieta salvifica, ecc.

La responsabilità non è dei cittadini, né dei nuovi santoni, che fino a prova contraria fanno il loro mestiere. La responsabilità è tutta di certa scienzaincapace di capire chi è e come funziona l’interlocutore. Una scienza ancora avviluppata in uno strascico di autoreferenzialismo, che spera che sia la popolazione ad adeguarsi al proprio linguaggio, e non che sia suo dovere intrinseco il contrario.

Ecco, la sfida è proprio questa: trasformare la descrizione della scienza nella narrazione della scienza. Preferire all’esposizione dei risultati, la storia dei protagonisti. E via dicendo.

Solo così la scienza, e i luoghi dove essa si produce (le università, i centri di ricerca, i conservatori, le accademie d’arte, i laboratori, ecc.) riconquisteranno quella vicinanza con i cittadini, che poi si traduce anche in pressione sul legislatore (e sul governante) al momento di decidere su cosa investire le ormai poche risorse a disposizione della finanza pubblica (e non solo).

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